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Domenica 3 settembre è morto a New York il poeta americano JOHN ASHBERY. Era considerato  unanimemente il più grande poeta americano contemporaneo. Il nostro Editor Paolo Prezzavento è uno dei suoi traduttori italiani. Vogliamo ricordare la figura di Ashbery riproponendo un suo ritratto del poeta americano.

John Ashbery, vita e poesia di Paolo Prezzavento

Gli studi letterari e le pubblicazioni poetiche

Nato a Rochester il 28 luglio 1927, John Ashbery trascorre un’infanzia solitaria nella fattoria di famiglia a Sodus, nel Nord dello Stato di New York. Studia a Deerfield e ad Harvard, dove si laurea nel 1949 con una tesi su Wystan H. Auden. Ad Harvard conosce i poeti Kenneth Koch e Frank O’Hara, stabilendo con entrambi un’intensa amicizia.

Nel 1951 consegue il Master alla Columbia University, con una tesi sullo scrittore sperimentale inglese Henry Green. In questo periodo vive a New York, frequenta il mondo artistico newyorchese e subisce l’influsso della musica di John Cage, della “danza aleatoria” di Merce Cunningham, della violenza espressiva del Living Theatre.

La sua prima raccolta di poesie, Turandot and other poems, viene pubblicata nel 1953 dalla prestigiosa galleria d’arte newyorchese Tibor de Nagy. In quella occasione il gallerista Bernard Myers usa per la prima volta l’espressione “poeti della New York School”, gruppo di cui farebbero parte, oltre ad Ashbery e O’Hara, Kenneth Koch, James Schuyler e Barbara Guest.

Nel 1956 la raccolta Some Trees vince lo Yale Younger Poets Prize, grazie alla segnalazione di Auden. Oltre al premio, Ashbery vince una borsa di studio Fulbright, che gli permette di trasferirsi in Francia per scrivere una dissertazione sullo scrittore Raymond Roussel. Durante il suo “esilio” francese inizia a collaborare come critico d’arte per l’International Herald Tribune, Art International e Art News.

La morte del padre, nel 1965, lo costringe a tornare a New York. Nel 1966 muore per un incidente stradale a Fire Island (Long Island) il suo grande John Ashberyamico Frank O’Hara.

Nel 1970 Ashbery pubblica la raccolta The Double Dream of Spring (titolo “rubato” da quello di un famoso quadro di de Chirico) che si conclude con lo splendido poemetto Fragment.

Dopo il 1972 Ashbery collabora come critico d’arte per le riviste New York, Newsweek e New Republic.
Nel 1976 vince il Premio Pulitzer, il National Book Award e il National Book Critics Circle Award con la raccolta Self-Portrait in a Convex Mirror (1975), che si conclude con un poemetto di più di 500 versi, dal titolo omonimo. John AshberyDa questo momento in poi, Ashbery diventa un personaggio noto al grande pubblico. La metafora dello specchio convesso, che Ashbery riprende dal famoso Autoritratto in uno specchio convesso del Parmigianino, verrà utilizzata dalla critica per indicare il particolare effetto di “distorsione” anamorfica prodotto dalla sua poesia. Il Self-Portrait è stato tradotto in italiano da Aldo Busi e pubblicato da Garzanti nel 1983. Nel 1989 è uscita una scelta dei suoi saggi di critica d’arte, Reported Sightings.

 

 

L’attività di critico d’arte e il Surrealismo

Nella sua produzione poetica e nella sua riflessione critica Ashbery ha elaborato una sua personale rilettura del Surrealismo dal punto di vista americano, alla luce di quelli che sono stati gli sviluppi del Surrealismo in America a partire dalla leggendaria mostra del 1936 “Fantastic Art. Dada and Surrealism” e, nel dopoguerra, dalla mostra sul Surrealismo del 1947 organizzata a New York da Marcel Duchamp e André Breton, che segnò la morte del movimento surrealista e la sua rinascita sotto altre forme.
Nella sua attività di critico d’arte, Ashbery è riuscito a cogliere i due aspetti della versione americana del Surrealismo: da un lato l’energia vitale di Jackson Pollock, la forza espressiva che sembra attingere direttamente alle fonti inesplorate dell’inconscio, dall’altro l’atteggiamento più disincantato degli artisti Pop degli anni ’60, e di critici come Fredric Jameson e Jean Baudrillard, secondo cui l’inconscio è stato colonizzato dalla spietata logica culturale del tardo capitalismo e la realtà è ormai ridotta a simulacro, a finzione suprema del tutto indipendente rispetto all’originale. Il surrealismo è morto, ma tutta la società e la realtà che ci circonda è diventata surreale. È questa la particolare versione che dà Ashbery della condizione postmoderna.
L’Ashbery scrittore cerca di difendersi come può dalla sur-realtà della moderna società di massa, da questa moderna “Wasteland” in Technicolor, ma senza demonizzarla e soprattutto senza rinunciare a interpretarla. Dunque l’atteggiamento indifferente, schivo e distratto che egli dimostra nelle sue poesie e nelle interviste non è indifferenza nei confronti della realtà, ma un modo per sfuggire ai numerosi tentativi di catalogare, etichettare e dunque banalizzare la sua opera. Tutto ciò ovviamente presta il fianco alle accuse di mancanza di profondità e di disimpegno che troviamo espresse nei molteplici attacchi che Ashbery ha dovuto subire nel corso della sua carriera da parte di vari critici e poeti, soprattutto quelli engagé. Eppure è proprio da questa sua indifferenza e disinteresse, dal dubbio costante che la figura del poeta si riveli essere nient’altro che un costrutto convenzionale e una montatura, che deriva gran parte del fascino del suo stile che sembra nascere dall’assenza di stile.

Interpretazioni dell’opera di Ashbery John Ashbery

In netta contrapposizione alla lettura post-surrealista o post-sperimentale dell’opera di Ashbery, che evidenzia anche il costante interscambio tra la sua poesia e la pittura (Parmigianino, de Chirico, etc.), si pone l’interpretazione critica di Harold Bloom (Agon, 1982), che riconduce Ashbery nel solco della grande tradizione della poesia americana, cercando di dimostrare l’originalità dello scarto semantico che gli consente di superare, con apparente nonchalance, la sua angoscia dell’influenza nei confronti di Wallace Stevens. Altre interpretazioni critiche collocano invece la figura di Ashbery tra quelle dei grandi espatriati americani, come Gertrude Stein, che sono riusciti a trovare una propria voce e un proprio stile estraniandosi completamente dalla grande tradizione letteraria americana.
Ognuna di queste letture critiche può addurre valide argomentazioni, ma certo è difficile immaginare un poeta raffinato e cosmopolita come Ashbery assumere la posa del bardo whitmaniano che lancia il suo grido barbarico. È difficile altresì immaginarlo nei panni del poeta espatriato alla T. S. Eliot, che ripudia le sue origini americane e prende la cittadinanza inglese. Quel che è certo è che l’esilio in Francia e la sua attività di
critico d’arte hanno dato un impulso decisivo alla produzione sperimentale degli anni ’50 e ’60.

La produzione di Ashbery successiva al Self-Portrait può ancora essere descritta come poesia d’avanguardia, non perché adotti la tecnica del rifiuto della forma o delle “parole in libertà”, ma perché continua ad attingere idee dalle varie esperienze d’avanguardia e a volte si limita, come faceva Duchamp con gli oggetti di uso quotidiano, a prendere degli spezzoni di linguaggio e a “firmarli” con il suo nome. La poesia diventa un
organismo autotelico, nel senso che trae da se stessa la propria autorità e la propria legittimazione in quanto tale. Non a caso alcune letture critiche sottolineano le affinità e i rimandi letterari tra la poetica di Ashbery e la poetica di T. S. Eliot e del modernismo.
Ciononostante, la poesia di Ashbery si pone agli antipodi rispetto a un certo modernismo, ad esempio rispetto alla ricerca della poesia pura ed essenziale di William Carlos Williams e al precetto mallarmeano di “purificare la lingua della tribù”. Ashbery scrive infatti una poesia volutamente “impura”, piena di scorie e informazioni apparentemente inutili e ridondanti. Si tratta di un tentativo di salvare la poesia non tramite la dissezione quasi scientifica delle parole che diventano in questo modo chiare, nette, lisce, pulite, ma tramite l’apparente accettazione passiva di tutto ciò che appare estraneo alla poesia, immergendola nella realtà invece di tentare di purificarla.

Le opere più recenti John Ashbery

Nel 1991 Ashbery ha pubblicato Flow Chart, un long-poem molto ambizioso che rappresenta una sorta di diario poetico o poema-fiume scritto nel suo consueto stile “obliquo” ed evasivo. Flow Chart è stato tradotto in italiano da Paolo Prezzavento e pubblicato nel 1997 dalle Edizioni del bradipo di Ravenna. Nel 1998 Ashbery ha partecipato a un vero e proprio tour italiano di poetry reading e di presentazioni della traduzione italiana di Flow Chart facendo tappa a Vicenza, Bologna, Macerata e Ascoli Piceno.

Negli anni ’90 del secolo scorso e nella prima decade del nuovo millennio Ashbery ha pubblicato varie raccolte, tra cui Hotel Lautréamont (1992), And the Stars Were Shining (1994), Can You Hear, Bird (1995), Wakefulness (1998), Girls on the Run (1999), Your Name Here (2000), Chinese Whispers (2002), Where Shall I Wander (2005), A Worldly Country (2007), Planisphere (2009). Nel 2008 è stata pubblicata una raccolta antologica delle sue poesie dal titolo Un Mondo che non può essere migliore: Poesie 1956-2007, a cura di Damiano Abeni e Moira Egan.

John Ashbery