Sul Sole 24 Ore di domenica 4 luglio, nell’inserto culturale, ho avuto modo di leggere un articolo di Roberto Saviano, estrapolato dalla prefazione che lo stesso ha scritto per “Višera”, volume di recente uscita pubblicato in Italia dall’Adelphi, dell’autore russo Varlam Šalamov (1907-1982). Preludio al già pubblicato “Racconti della Kolyma”, “Višera” racconta la nascita dei lager sovietici e le prime esperienze nel Gulag negli anni ’20.

In “Racconti della Kolyma”, Šalamov descrive i vent’anni della sua vita trascorsi dentro un campo di prigionia, scontati solo per essere stato colpevole di reati d’opinione contro il totalitarismo sovietico. Venti anni trascorsi cercando di non soccombere alle atrocità fisiche e psicologiche, ma andando a ricercare “in ogni singola vicenda una stilla di possibilità: la possibilità della vita”. Scrive Saviano: “Šalamov riesce a dimostrare attraverso l’osservazione della natura che resistere si può

[….] Stando in silenzio, lottando per mangiare. L’orgoglio dell’esistenza. La capacità di non lasciarsi corrompere dal bisogno. Si può continuare a essere uomini anche in quelle condizioni, ci si può riuscire. Questa è la grandezza di Šalamov”.

Non conosco questo autore, ma non mancherò di leggerlo. A Saviano il merito di essere riuscito a trasmetterne la forza e la grandezza nel suo articolo.

È evidente il parallelismo tra i due scrittori. Nella prefazione a “Višera”, Saviano scrive: “Venti lunghi anni in Siberia … e quelli che gli erano rimasti da vivere dopo il lager li passò a raccontare quell’esperienza, con la coscienza di chi sa che sta facendo qualcosa di assolutamente necessario. E per farlo perse tutto”. Come non fare un immediato paragone con la vita di solitudine e segregazione a cui è costretto lo scrittore italiano, solo per aver raccontato ciò che coscientemente riteneva “assolutamente necessario”?

Scrive ancora Saviano: “Le storie di Šalamov smettono di essere Gulag, Siberia, totalitarismo, automutilazione, morte. Divengono, come solo la letteratura può divenire, spazi e azioni che mettono alla prova l’essere umano e ne tracciano l’essenza”, e ancora:

“La speranza, l’unica, passa esclusivamente attraverso la scrittura. E la resistenza. Scrivere è resistere. Non serve altro a Šalamov….Scrivere diviene forse una ricompensa a sopportare tutto, una necessità per darsi forsa e continuare a vivere. Vivere per scrivere, perché se non lo racconti, non succede. E se non lo fai. Nessuno saprà mai che è successo”.

Saviano sta parlando di Šalamov o sono parole che vuole ripetere a se stesso per trovare la forza, il coraggio, l’ostinazione di andare avanti e non mollare alla legge del più forte come ha fatto lo scrittore russo?

Scrivere per testimoniare, scrivere per vivere, scrivere per dire ciò che si pensa, senza paura, senza compromessi, senza ossequiosi particolarismi. Ciò che dovrebbe essere norma, oggi è sempre più un’eccezione. Viviamo in un mondo di falsi miti e modelli, in cui la cultura, non essendo bene commerciabile a breve termine, è stata bistrattata, violentata, presa in giro, relegata in un angusto canto a leccarsi le ferite. C’è bisogno di verità, di qualcuno che sappia ridare forza alle parole, non che le usi per confondere, conquistare e poi fregare.

Libertà. La parola ha il grande compito di rendere liberi. Sia Saviano che Šalamov interpretano la scrittura come missione di libertà e resistenza. Il loro scrivere, per chi ha l’onestà intellettuale di riconoscerlo, non è un esercizio di stile, ma un esercizio di vita, un voler ogni giorno scegliere la vita.

Domenico Capponi